
In memoria di Vincenzo Moretti
Un ricordo di Ombretta Prandini
Sei entrato in un tempo recente nelle nostre associazioni e da subito è nata e poi fiorita in modo tanto autentico e fecondo una sincera amicizia. Nell’averti accanto si respira la tua grande umanità, sai arrivare con parole e gesti come il tocco di una carezza; una cifra che dice di te è il garbo, la grazia con cui stai nel legame e al momento opportuno… un po' di ironia. Ora che ci hai lasciati resta l’ineludibile nostalgia di ciò che è perduto e la gratitudine di averti incontrato in vita.
Ti sei fatto presente sin dalla prima ora nelle Società Cittadine di Psicoanalisi, poi come clinico di Jonas e collega di IRPA; sapevi esserci con la tua presenza attenta e sensibile, sapevi lasciare andare ciò che era trascurabile e segnare, con la tua parola o un gesto, ciò che non andava lasciato cadere. Sarà stato il rapporto singolare che intrattenevi col tuo sapere, tanto ricco e ampio, che ti permetteva di essere sinceramente curioso: desideravi imparare e apprendere da chiunque. All’origine della tua formazione una laurea in Filosofia che ti aveva fatto appassionare alla filosofia francese del ‘900, agli sviluppi teoretici, etici, sociali e politici del pensiero filosofico di Foucault, Sartre e Deleuze. Poi un dottorato di ricerca, sotto la direzione di Derrida, ti aveva portato a Parigi dove hai incontrato la psicoanalisi lacaniana frequentando i Seminari della sezione di Psicoanalisi presso l’Université Paris VIII.
Ti sei messo in gioco in un’analisi personale prima a Parigi poi a Milano. Avevi ascoltato Derrida, avevi studiato Lacan e il tuo spirito di ricerca ti spingeva verso la pratica psicoanalitica e ti sei adoperato per una seconda laurea in Psicologia e la specializzazione in Psicoterapia; hai praticato come psicoanalista, e per anni sei stato impegnato nel campo terapeutico della lotta contro l’AIDS (Associazione LILA).
È in questo momento della tua vita che noi ti abbiamo incontrato; siamo diventati amici “tardi”, in un’età che non è quella delle amicizie sui banchi di scuola o dell’università. Nonostante ciò ti sentivi quell’età, portavi un vento di apertura, di fantasia e di musica. Era l’estate del 2020, ci conoscevamo appena. Ti eri da subito, “reso disponibile”, per un progetto in cui credevi e nel quale volentieri ti eri lasciato coinvolgere, con la preziosa fiducia nel transfert di lavoro che ti contraddistingueva, fiducia che ci hai testimoniato instancabilmente. Quell’estate l’abbiamo passata insieme, distanti geograficamente, ma avvicinati da scambi quotidiani, nel tentativo di capire in che forma dar vita alla Società Milanese di Psicoanalisi, nelle riunioni on line, perché c’era il covid, oltre all’estate. Eri in mezzo a noi, psicoanalisti, come un amico di vecchia data. Tu, laborioso e studioso, sempre disponibile a compartecipare un sapere rivisitato e riletto e a farne una nuova idea da suggerire, come la volta in cui hai proposto l’incipit del sito della Società riportando una citazione di M. Davis:
“Nel Jazz, il cuore dell’improvvisazione non è suonare le note trascritte sugli spartiti già scritti ma… suonare la nota che non c’è, quella nota che sarà solo tua, quindi unica”.
In breve tempo abbiamo aperto su molti progetti di studio, di scrittura, abbiamo sognato l’avvenire della psicoanalisi, finché… all’improvviso, una malattia fatale ti ha portato via in pochi giorni. Il 29 giugno scorso ci hai lasciati; noi, increduli, disorientati, senza parole. Per tutti noi, te ne sei andato troppo presto, troppo in fretta, lasciando in sospeso tutto.
Non c’è stato tempo per concludere i progetti… per te il tempo di concludere una vita è arrivato prima: l’ultima volta che ci siamo sentiti, quattro giorni prima della tua scomparsa, eri ancora pronto, generosamente, a porgere la mano verso l’altro, col tuo sconfinato desiderio di scambio e contatto; sentivi la tua fine imminente e sei riuscito ancora a dire: “se avete bisogno di una mano ci sono”… allo stesso tempo concludendo la frase ci hai lasciati andare, dicendomi: “ma non ce n’è bisogno, voi ce la farete, la mia vita è finita qui, è finita così”. È seguito un attimo di silenzio, le parole si sono sospese, il tempo si è dilatato, un attimo di vita durato un’eternità. Come tu fossi su un istmo di terra bagnato simultaneamente da due acque differenti, quella della presenza e quella dell’assenza, eri lì “fermo sulla frontiera da cui osservi/ quel che sei stato, quel che già non sei” – come scrive F. Scarabicchi.
Ci lasci, ci hai lasciato, le onde delle due acque hanno cancellato l’istmo di terra, assenza e presenza si sono mescolate. Le onde dell’acqua spazzano via la tua traccia ma resta l’effetto, differente in ciascuno di noi, della particolare impronta del tuo passaggio, Vincenzo.
Manchi caro Vincenzo, manchi a tutti e a ognuno, a uno a uno, a suo modo.